Intervista a Giancolombo

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L'inizio della carriera

Tutto era cominciato 10 anni prima. Dopo il liceo classico a Venezia Giancolombo era destinato all'università - ingegneria: "ci mancherebbe altro". Erano tutti una famiglia di ingegneri: nonno, padre, e ora lui il nipote. Questione di tradizione.

Era il tempo del fascismo, gli anni in cui il mondo andava incontro alla 2° guerra mondiale. Aveva appena cominciato

a frequentare quando gli dissero: "Giancolombo! Classe 1921, tu sei volontario universitario e vai a Treviso". "Chi? io?". Non ci fu niente da fare: abile e arruolato. Tre mesi dopo era in Albania sergente d'artiglieria di montagna, e poi in Francia sulla costa, sottotenente sempre d'artiglieria negli alpini. Davanti aveva ancora l'8 settembre, un anno di campo di concentramento in Polonia prigioniero dei tedeschi, e un dito portato via dall'esplosione di un proiettile mentre era ufficiale armaiolo di stanza a Rapallo. Congedato perché disabile, tornò a Venezia a riprendere da dove aveva smesso: la facoltà di ingegneria. Il padre naturalmente lo voleva laureato. Ma non è che a Giancolombo riuscì bene di applicarsi allo studio. L'esperienza della guerra si fece sentire.

"A Milano mio cugino Luciano Emmer mi diede una mano". Dopo avergli offerto una breve esperienza nella produzione di film: "mi presentò al direttore di un settimanale comunista stampato presso il Corriere della Sera. Mi misero in mano una Leica e mi spedirono a fare interviste agli operai negli stabilimenti". Ritrovò uno dei suoi cugini, Claudio Emmer, in via Bagutta dove aveva uno studio. Claudio gli cedette una stanza in cambio di assistenza per i servizi fotografici che stava realizzando al Teatro alla Scala. "Cominciai così l'attività di fotografo per conto mio. Poi mi capitò di andare a Venezia. C'era un circo allestito in P.zza San Marco. Mi affascinò l'idea". Il risultato fu una foto con in primo piano dei cavalli durante un numero con lo sfondo della basilica.

         

Giancolombo preferisce la destra alla sinistra: è per questo che pensò di offrire quelle foto di Venezia al Corriere Lombardo. Gliele pubblicarono e gli fecero pure i complimenti: fu la prima volta da libero professionista. "Poi, incontrai il direttore del giornale ad una cena in via Bagutta. Allora era ritrovo di giornalisti, artisti ed dell'intellighenzia modaiola di Milano. Il fotografo Patellani - quello che diventerà famoso - se n'era andato, e lui aveva di che lamentarsi - a suo dire - per essere stato lasciato così su due piedi". Giancolombo gli offrì i suoi servigi. Il giorno dopo gli diedero due leica in prestito e 20.000 lire al mese. Lui fece il resto: si procurò un impermeabile e un cappello a tese larghe, come allora andava di moda. E poi mise le mani su una moto dei paracadutisti americani - un bidé come veniva chiamata, perché di piccolissime dimensioni per poter essere trasportata e paracadutata più facilmente.

"E così combinato me ne andavo a caccia di fotografie".

Nel 1948 i comizi politici non si contavano: c'erano le prime elezioni libere italiane dai tempi del fascismo. C'era De Gasperi quel giorno in piazza duomo ad arringare le folle. "E pioveva che Dio la mandava. Ebbi l'idea di arrampicarmi alle spalle del palco e di fotografare quella distesa di ombrelli tenuti su da chi lo stava ascoltando. Facevano impressione". Aveva avuto il colpo di genio: la foto finì in prima pagina e la United Press gli comprò il negativo per 10.000 lire, spedendola ai giornali di tutto il mondo. Partì così la collaborazione con una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo: lui gli faceva le fotografie in Lombardia e a Milano e loro le distribuivano in America.

Di soldi però non ne giravano molti. A dormire se ne andava in un sottoscala di Via della Spiga, quando ancora era una roba da squattrinati. E lì, solo con del legno trovato in giro, era riuscito a costruirsi una camera oscura.

"La prima volta che pubblicarono una foto per un errore di trascrizione, o forse per semplificazione, il mio nome venne trasformato da Gian Battista Colombo in Giancolombo". Ed è inutile negare che  gli piacque molto. "Lo trovai bello, caratteristico, perché non dirlo, e soprattutto facile da ricordare". Un bel vantaggio per chi fa questo mestiere.

Se aveva avuto ancora dei dubbi fino quel momento sul suo futuro di fotografo, "perché ero ancora giovane, e mio padre insisteva con l'ingegneria", adesso non ce n'erano più, quella sarebbe stata la sua strada. Adesso non era più un Gian Battista Colombo qualunque. Anzi adesso aveva pure un soprannome: Giancolombo.

"Una mattina me ne stavo andando all'Innocenti a convincere l'ufficio stampa a consegnarmi una lambretta. Passai davanti al Dazio, che era tutto un trambusto: il doganiere capo era impazzito e sparava a chiunque si avvicinasse. E io che feci? Mi avvicinai". Per forza. Riuscì a fotografarlo con la pistola in mano da una finestra del cortile. La carriera cresceva: il giorno dopo 6 foto di spalla con tanto di elogi in prima pagina sul Corriere Lombardo. E naturalmente un soprannome, uno dei tanti che avrà. "Lambretta! - urlavano alle mie finestre da quel giorno gli incaricati del Corriere Lombardo quando passavano per chiamarmi". Allora erano in pochi a permettersi un telefono.

 

Il caso Rina Fort     Avanti

  



 

Bibliografia: Le vostre novelle - Settimanale illustrato - 2 luglio 1960; Oggi - Settimanale di politica attualità e cultura - 31 dicembre 1959; Corriere d'Informazione - 24/25 maggio 1962; Il Giornale - quotidiano - 14 novembre 1982